La Questione Israelo-Palestinese nel nuovo millennio

La Seconda Intifada

Il fallimento dei negoziati di Camp David non fece che rialzare il livello di tensione nell’area.

L’ipotesi di un’intesa per la pace sfumava e la possibilità di trovare una soluzione per la questione umanitaria dei rifugiati, che tanto premeva all’opinione pubblica araba, sembrava sparire. Lo stesso Arafat, principale referente di quell’ala palestinese intenzionata a trovare un accordo costruttivo, aveva finito per perdere credibilità a causa di quel fallimento.

Le azioni di guerriglia ai confini, perpetrate da gruppi terroristici palestinesi come Hamas e dagli Hezbollah libanesi, proseguivano, e allo stesso modo le “spedizioni punitive” israeliane in risposta a quelle azioni.

questione israelo-palestinese
Ariel Sharon

In particolare, poi, proprio a pochi mesi di distanza dal fallimento di Camp David, vi fu un altro episodio di rilievo che contribuì a far degenerare la situazione. Il nuovo leader del Likud e capo dell’opposizione, Ariel Sharon, decise la mattina del 28 settembre 2000  di sfilare a piedi, scortato da un gruppo di guardie armate, nella Spianata delle Moschee di Al Aqsa, uno dei luoghi più sacri di Gerusalemme. Il gesto, chiaramente provocatorio, fu giudicato intollerabile dagli arabi e provocò una spropositata reazione che presto si trasformò in vera e propria sommossa: era l’inizio della Seconda Intifada. La reazione dimostrava peraltro l’altissimo punto di tensione in cui la situazione era caduta, tale che il minimo gesto provocatorio era in grado di far scoppiare un tumulto.

Si tratterà di una Intifada ben più sanguinosa della prima: i rivoltosi useranno armi da fuoco e kamikaze contro militari israeliani e civili, spesso facendo vittime anche tra gli stessi arabi (bambini compresi). La percezione dell’insicurezza tra gli israeliani chiaramente aumenterà, portando l’anno successivo il Likud di Sharon nuovamente al governo. Come prevedibile, gli episodi di violenza si intensificarono, sia da una parte che dall’altra, e l’esigenza di ordine e sicurezza porterà, nel 2002, alla celebre operazione “Scudo Difensivo”, ossia una strategia di guerra preventiva che legittimerà Sharon a invadere i vecchi territori occupati facendo sovente strage tra i civili. Si arriverà anche alla costruzione di un muro di separazione tra Israele e la Cisgiordania.

Il ritiro delle truppe israeliane dalla striscia di Gaza avverrà solo nel 2005, e non senza forti resistenze degli estremisti di destra israeliani, che cercheranno di ostacolare il loro stesso leader.

In quello stesso periodo – 11 novembre 2004 – morirà poi Yasser Arafat, segnando anche simbolicamente la fine del periodo di trattative diplomatiche tra le due parti in contesa. Le possibilità di un accordo pacifico e duraturo sembravano sfumate per sempre e le condizioni per poter tornare a trattare ben lontane dal poter essere raggiunte.

Gli incontri e i negoziati tra le parti in causa per definire le due questioni ancora irrisolte dopo 60 anni – Gerusalemme Est e i rifugiati – di fatto smetteranno di essere anche solo tentati.

L’espansione di Israele dal 1948 a oggi

La nuova linea geopolitica americana

A far scemare definitivamente ogni ipotesi diplomatica non saranno però solo gli avvicendamenti della Seconda Intifada e la morte di Arafat; sullo sfondo, sul piano geopolitico, un ruolo chiave è stato sicuramente giocato dalla nuova linea di politica estera inaugurata dal nuovo Presidente degli Stati Uniti George W. Bush.

George W. Bush

Come visto, nel bene o nel male, gli USA erano stati per decenni l’unico referente serio cui entrambe le forze si erano appoggiate per aprire e condurre i negoziati; ma con l’arrivo di Bush, e soprattutto il degenerare delle tensioni geopolitiche derivate dal celebre attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, gli USA chiusero definitivamente tutti i rapporti con i Paesi arabi della zona, lasciando di fatto le sorti della Palestina in mano a Israele e alle forze terroristiche. Non solo, infatti, si interruppe ogni possibilità di apertura di trattative con i principali attori arabi impegnati nel conflitto, ma addirittura questi ultimi finirono nella lista degli “Stati Canagalia” redatta dall’NSA americana – così la Siria e l’Iraq, ad esempio – e con i quali, in quanto tali, non era possibile avviare alcuna azione diplomatica.

I palestinesi restavano così, per l’ennesima volta, abbandonati a se stessi e costretti a far valere le loro ragioni con l’unico strumento rimasto nelle loro mani, la violenza, che continuerà a manifestarsi ancora, come dimostrerà lo scoppio della cosiddetta Terza Intifada a partire dal 2015.

Peraltro, gli sconvolgimenti dell’ultimo decennio in Medio-Oriente – la Seconda guerra del Golfo, la crisi siriana, l’Isis e ora l’intervento turco nel Kurdistan siriano – faranno progressivamente passare in secondo piano le dinamiche legate alla questione Israelo-palestinese negli obiettivi delle grandi potenze, per fare posto a questioni più urgenti e geopoliticamente più impellenti.

Non solo: ma proprio quegli sconvolgimenti finiranno per avere inevitabili ripercussioni sulla questione israelo-palestinese, contribuendo infatti ad aumentare la tensione nei territori occupati ogni volta che uno di quei paesi subiva un’aggressione, un’invasione o si cadeva nella guerra civile.

I diritti dei palestinesi, in tutto questo, continueranno ad essere ignorati dall’intera Comunità Internazionale. Ancora oggi, infatti, pare che l’unica questione davvero chiusa sia la disputa ai confini con l’Egitto; la crisi siriana ha infatti destabilizzato l’unico altro paese solido ai confini israeliani, creando nuove incertezze in uno scenario post bellico nel quale ancora oggi sembra tutto da definire – tra dipartita USA, intervento turco e questione curda ancora aperta -; al contrario, rimane ad un punto morto sia la questione di Gerusalemme Est, la cui occupazione è considerata illegittima dalla Comunità Internazionale ma che Israele, forte dell’interpretazione inglese della Risoluzione 242, si ostina a non voler abbandonare per via dell’importanza – geopolitica ma soprattutto religiosa – che la città ha per gli ebrei. Soprattutto, resta aperta del tutto la questione umanitaria dei rifugiati e delle legittime pretese nazionaliste degli arabi palestinesi, pretese che nessuno Stato arabo vuole più prendere in considerazione, perché riconoscere la necessità di uno Stato palestinese deve necessariamente passare dal riconoscimento dello Stato di Israele, gesto che i suddetti paesi continuano ad ostinarsi a non voler fare.

E tutto questo, infine, avviene in un nuovo scenario nel quale il principale referente “imparziale” capace di spingere le parti a trovare un accomodamento – ossia gli USA – appare ormai del tutto screditato del suo ruolo di mediatore in Medio-Oriente, rendendo il raggiungimento di una soluzione ancor più complesso.

Allo stato attuale, dunque, non sembrano esistere seri spiragli per la riapertura delle trattative di pace, volte a definire finalmente questo secolare conflitto.

Un ultimo tentativo, più propagandistico che reale, lo ha tentato Donald Trump, all’inizio di febbraio del 2020, secondo i criteri che trovate in questo interessante articolo di Valigiablu. Accordo che, con l’arrivo della pandemia, è stato inevitabilmente sospeso fino a data da destinarsi.