La Militarizzazione del Conflitto – IV Fase

La Risoluzione n. 242

Come detto, la fine della Guerra dei 6 Giorni indusse, come ovvio, la Comunità Internazionale ad intervenire sull’argomento e lo fece in primo luogo condannando l’aggressione Israeliana – condanna che ebbe però solo un effetto declaratorio, nonostante i 99 voti favorevoli, i 22 astenuti e nessun voto contrario – e successivamente con la Risoluzione n. 242 che divenne “il pilastro di ogni successivo dibattito sulla questione palestinese” (DI NOLFO, p. 1101). Si tratta in effetti di un punto cruciale di tutta la questione, che resterà al centro del dibattito fino ai nostri giorni. Vale dunque la pena analizzarne contenuto e criticità principali.

La Risoluzione si basava sui seguenti obiettivi:

ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati nel recente conflitto, la fine di ogni stato di guerra, il rispetto e il riconoscimento della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di tutti gli Stati dell’area e del loro diritto di vivere in pace entro confini sicuri e riconosciuti, liberi da minacce a atti di forza

Risoluzione ONU n. 242/1967

E qui viene un punto davvero interessante ed assurdo allo stesso tempo. Come la storia ci insegna, Israele non abbandonerà mai tutti i territori occupati nella Guerra dei 6 giorni, e ciò dovrebbe far desumere una chiara violazione della Risoluzione. Tuttavia non è esattamente così e per un cavillo davvero insolito.

Il testo della Risoluzione, come tutte quelle ONU, era stato redatto in inglese e francese; la versione francese parlava di ritiro “des territories”, ossia inequivocabilmente da “tutti i territori” occupati. Quella inglese, invece, era più ambigua, poiché recitava “from territories” e non “from THE territories”; l’assenza dell’articolo sembrava dunque indicare che il ritiro dovesse avvenire non da tutti i territori, ma solo da alcuni di essi. E fu su questa interpretazione che si appoggiarono gli israeliani, scatenando un dibattito ancora oggi mai sopito.

Per il resto, fu comunque un buon risultato diplomatico per entrambi gli schieramenti: per i palestinesi, che ottennero che Israele ritirasse le truppe da almeno buona parte dei territori occupati; per Israele, perché si vedeva riconosciuto il diritto a vivere in pace entro confini sicuri.

Ciò non tolse che, per l’ennesima volta, quella che doveva costituire la base per un futuro accordo definitivo fu soltanto una pausa, in attesa di un nuovo pretesto per riaprire le ostilità.

La Guerra dello Yom Kippur

Per quanto la Risoluzione 242 avesse offerto spiragli positivi ad entrambi gli schieramenti, la situazione non mutò ed anzi le tensioni continuarono a crescere. Israele, forte dell’interpretazione “inglese” della Risoluzione, continuava ad ostinarsi a non voler abbandonare alcuni territori occupati, specialmente se di fondamentale importanza strategica – come la Cisgiordania e il Golan – o religiosa – Gerusalemme – e questo alimentò ulteriormente il risentimento palestinese e, con esso, l’azione violenta dell’OLP, i cui attacchi di guerriglia e attentati divennero una costante per tutto il periodo successivo alla guerra. Alle operazioni dell’OLP, Israele rispondeva con rastrellamenti e spedizioni punitive. Ancora una volta, quella che sembrava essere una pace era in realtà un semplice armistizio che nessuno sembrava intenzionato a prendere sul serio.

Neppure il lavoro della diplomazia ONU, pure assiduo in quegli anni, era riuscito a risolvere granché. Era solo questione di tempo prima che le ostilità si riaprissero nuovamente.

Il principale candidato a riaprire il conflitto con Israele era, ancora una volta, l’Egitto. Nel frattempo, però, Nasser era morto e al suo posto al potere era salito Anwar Al-Sadat.

Anwar Al-Sadat

Sadat aveva un obiettivo primario: riuscire a scalfire l’aura di invincibilità che circondava ormai Israele, cercando cioè non tanto di ottenere una concreta vittoria, ma di colpire Israele in modo che si dimostrasse vulnerabile, così da poter riaprire le trattative da una posizione di vantaggio, ben diversa da quella del 1967.

Era naturale che per poter ottenere un simile risultato l’unica possibilità era un attacco a sorpresa, meglio se effettuato in un momento in cui Israele avesse la guardia abbassata e fosse quindi più vulnerabile. Per questo, per l’attacco coordinato tra Egitto e Siria fu scelta la festività dello Yom Kippur (la festa dell’espiazione, la più solenne del calendario ebraico): il 6 ottobre 1973.

L’attacco mostrò subito la sua efficacia: anche grazie agli armamenti forniti dai sovietici, l’aviazione israeliana, presa di sorpresa, fu bloccata in una situazione di stallo mentre le corazzate egiziane avanzavano nel Sinai e quelle siriane penetravano nel Golan. Il mito dell’invincibilità israeliana era stato violato.

I sovietici proposero un cessate il fuoco che fermasse la situazione in quello status quo, ma Sadat lo rifiutò categoricamente, certo di poter ulteriormente profittare della situazione; ma aveva fatto male i suoi calcoli perché Israele ricompattò velocemente le sue forze e passò al contrattacco. In tutto questo, l’ONU era rimasto colpevolmente inerme.

Il contrattacco israeliano fu poderoso e consentì in breve tempo agli ebrei di recuperare le posizioni perdute ed anzi di spingersi fino a Suez, finendo per minacciare addirittura il Cairo. Solo allora, il 22 ottobre, l’ONU intervenne, imponendo il cessate il fuoco con la Risoluzione n. 338. Una scelta peraltro contestata fortemente da Israele, che lamentava l’assoluta inerzia dell’ONU mentre era in atto l’offensiva araba, per poi intervenire solo una volta iniziato il contrattacco israeliano…

In ogni caso, ne seguì una estenuante trattativa diplomatica gestita dalle due superpotenze e in particolare dall’opera certosina di Henry Kissinger, che riuscì ad ottenere l’interposizione delle forze ONU tra i contendenti al “chilometro 101” – sulla strada tra Suez e Il Cairo – e l’impegno per una demilitarizzazione totale della zona entro il 31 maggio 1974.

La guerriglia in Libano e la nascita di Hezbollah

Il conflitto aperto veniva interrotto per l’ennesima volta. Ciò non toglie che la violenza sui confini israeliani continuò anche dopo quella tregua: bloccate le operazioni militari al confine sud con l’Egitto e perso nuovamente il controllo del Golan al confine con la Siria, l’OLP spostò le sue operazioni a nord, in Libano, alle quali seguirono dure rappresaglie israeliane che provocarono numerosi morti tra i civili libanesi, alterando anche i rapporti tra il Libano ed Arafat. Saranno peraltro questi avvicendamenti a favorire la nascita di un altro movimento anti-sionista che avrà un ruolo determinante nell’intera questione medio-orientale: gli Hezbollah.

Nonostante tutto ciò, qualcosa, dalla seconda metà degli anni ’70, sembrava comunque iniziare a cambiare…