La Militarizzazione del Conflitto – III Fase

La nascita dell’OLP

La crisi di Suez segnò un altro punto importante della questione israelo-palestinese: il definitivo passaggio di consegne dall’Europa agli Stati Uniti nella gestione dell’area. Ma vedremo nel prossimo articolo le ripercussioni di questo passaggio.

Per ora, siamo rimasti al fatto che, in mezzo a tutto questo trambusto, l’unica etnia ad essere del tutto ignorata da una parte e dall’altra continuavano ad essere proprio i palestinesi: vessati dagli israeliani e strumentalizzati dagli arabi quando era loro comodo, per poi abbandonarli quando si trattava di aiutarli, essi continuavano a subire le conseguenze di una situazione complessa e scomoda che li riguardava direttamente ma all’interno della quale non godevano di alcuna voce in capitolo né di alcuna forma di rappresentanza.

Furono proprio queste le ragioni che spinsero i palestinesi a creare forme di organizzazione in proprio, spesso con chiari risvolti militari e terroristici, allo scopo di combattere l’invasore.

Il più importante di tutti in questo senso fu Al Fatah, nata proprio dopo il 1956 per mano di uno dei protagonisti indiscussi di tutta la questione israelo-palestinese: Yasser Arafat.

Yasser Arafat

Il ruolo di quest’uomo politico risulterà fondamentale non solo in qualità di capo di Al Fatah, ma soprattutto perché, a partire dal 1964, su iniziativa della Lega Araba proprio Al Fatah, e quindi lo stesso Arafat, furono posti alla guida di una nuova organizzazione, nata proprio allo scopo di rappresentare gli interessi dei cittadini palestinesi: l’OLP – Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Un movimento che presto raccolse tutte le istanze del mondo palestinese, nel quale confluirono quasi in blocco.

Furono proprio Al Fatah e l’OLP ad ingaggiare quella forma di guerriglia latente ma continua che era rivolta a logorare lo Stato di Israele con attacchi a sorpresa, attentati e lancio di missili a breve gittata (soprattutto dalla Siria verso il Golan). E poterono permettersi di farlo forti dell’appoggio incondizionato degli altri paesi arabi, Egitto in prima linea, i quali erano a loro volta finanziati dai sovietici, il cui intervento a palese difesa delle pretese arabe diede una rinnovata speranza a quei paesi di poter finalmente scontrarsi con Israele ad armi pari.

Dal canto suo, però, Israele vedeva questa guerriglia come una minaccia effimera per la sua esistenza, potendo contare sia sugli aiuti economici europei e americani ma anche sull’indennizzo imposto alla Germania per l’olocausto, e sugli effetti della nuova ondata migratoria post-indipendenza, che rendeva Israele uno Stato ormai forte di più di 2 milioni di persone e dove, cioè, la presenza araba era ormai limitata ad un misero 13% del totale.

Entrambe le fazioni, insomma, si erano rafforzate, soprattutto grazie all’intervento delle due grandi potenze – USA e URSS – che vedevano il Medio-Oriente come una delle principali scacchiere dove si sarebbe giocata la Guerra Fredda.

La tensione, quindi, continuava a salire, al punto che si era solo più in attesa di un pretesto per riaprire le ostilità con un nuovo conflitto armato.

La Guerra dei 6 giorni

A crearsi il pretesto per la riapertura delle ostilità fu proprio Nasser, convinto come era che con il supporto sovietico sarebbe stato finalmente in grado di mettere in campo delle forze all’altezza di quelle israeliane.

Tutto nacque quando, per vie traverse, Nasser venne a conoscenza del fatto che probabilmente Israele stava progettando un attacco alla Siria, per bloccare quello stillicidio di bombardamenti operati dalle forze OLP sfruttando proprio la disponibilità della Siria di fare uso dei suoi territori. Nasser cercò così di stringere un accordo con la Siria e chiese agli Stati Uniti di allontanare le sue truppe dalla Giordania – che costituiva uno Stato cuscinetto che separava i due principali contendenti, Egitto e Israele, e che proprio per questo costituì per lungo tempo un fedele alleato americano, da questi fortemente foraggiato e protetto – dando l’impressione di voler rompere gli indugi e attaccare Israele da sud.

L’atteggiamento di Nasser restava bellicoso, ma continuava a prendere tempo, probabilmente nel tentativo di meglio comprendere la consistenza e il dislocamento delle truppe nemiche.

Israele, invece, aveva fatto meglio i suoi conti: di fatto, sapeva che tra tutte le forze nemiche da cui era circondato, l’unico vero problema poteva provenire solo dall’Egitto, rispetto al quale peraltro – a differenza di Nasser, troppo ottimista – erano consapevoli di essere in netta superiorità militare e strategica. Fu così Israele a rompere gli indugi: il 5 giugno del 1967 attaccò di sorpresa le basi egiziane neutralizzando le forze aeree di Nasser prima ancora che le stesse potessero alzarsi in volo.

Con l’aviazione annullata, il resto venne da sé: in appena 4 giorni, le forze di terra Israeliane occuparono per intero il Sinai, la CisgiordaniaGaza e perfino tutta Gerusalemme (che da ora in poi diverrà a tutti gli effetti territorio israeliano e sul quale verranno solo più decisi accordi sull’accesso degli arabi ai luoghi sacri, come vedremo). A nord, invece, il 10 giugno completarono anche l’occupazione delle alture del Golan, a discapito della Siria (l’esercito era guidato da un certo Rabin, che presto ritroveremo protagonista in tutt’altra veste…).

In sei giorni, l’estensione dello Stato di Israele era più che raddoppiata.

Fu una sconfitta totale per le forze arabe e una vittoria schiacciante per quelle israeliane, che in breve tempo si erano trasformate da un Paese circondato da nemici in una vera e propria potenza egemone dell’area.

C’era però anche un importante risvolto della medaglia, soprattutto per le sue conseguenze sulla questione israelo-palestinese: l’allargamento dei confini di Israele aveva anche fatto sì che la stessa popolazione dello Stato aumentasse considerevolmente dai 2 milioni e mezzo a quasi 4 milioni di abitanti, 1 milione e mezzo dei quali era di etnia araba. Ciò modificò sensibilmente il rapporto ebrei/arabi nel Paese creando una fortissima presenza araba che pose di nuovo una questione sul tavolo: l’eventuale riconoscimento o meno di una nazione palestinese al fianco di quella ebraica.

Un’eventualità che fu categoricamente esclusa dai vertici israeliani:

Al rifiuto arabo del 1948 si contrapponeva ora un rifiuto israeliano altrettanto tenace e radicato nella considerazione che solo la negazione dell’esistenza di una nazione palestinese rendesse possibile garantire la sicurezza della nazione israeliana

DI NOLFO E., Storia delle relazioni internazionali, p. 1099.

La chiusura del conflitto pose dunque sul tavolo delle trattative numerose criticità, che andavano dalla questione dei rifugiati, a quella dell’occupazione dei territori arabi da parte di Israele – tra cui Gerusalemme Est, dall’enorme importanza sia strategica che religiosa – a quella, altrettanto spinosa, dell’eventuale riconoscimento di un’autorità palestinese accanto a quella araba, come già paventato nel 1947.

Questioni che vennero, per forza di cose, devolute ancora una volta all’ONU.