Parte VII di IX
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Premessa
Dopo aver fornito tutte le premesse necessarie nei precedenti articoli, possiamo finalmente iniziare ad esporre la mia teoria della giustizia assoluta.
Ricapitoliamo. Nell’ultimo articolo ho esposto le mie critiche logiche alla ricostruzione di Rousseau, che suddivide l’evoluzione sociale umana in due fasi – stato di natura e stato civile – e che presuppone un cambiamento “istantaneo” dell’uomo, che per il solo fatto di aver istituito una società diventerebbe “magicamente” e “istantaneamente” razionale.
Si tratta di una ricostruzione che come detto non sta in piedi e che va rivista daccapo; e sarà proprio in base alla revisione che ora ne darò che scaturiranno le basi della mia teoria della giustizia assoluta.
Per farlo, bisogna cercare di rianalizzare i processi che hanno indotto l’uomo a creare le società e ad uscire dallo “stato di natura”, andandoli concretamente a verificare facendo un lungo salto indietro nel tempo. Come aveva infatti ipotizzato Rawls, un nucleo di regole giuste “in assoluto” si potrebbero ricavare in una posizione iniziale nella quale i membri ancora non conoscono le effettive risorse della società e il loro ruolo all’interno di essa.
Questa posizione io ho provato a ravvisarla proprio nell’ipotetico istante in cui l’uomo ha creato la società.
Le società umane primitive
Partiamo proprio dallo stato di natura: in questo stadio dell’evoluzione – concettualmente ipotetico ma utile per i fini esplicativi – l’uomo non conosce civiltà o società e vive nella stessa condizione degli altri animali secondo le uniche leggi esistenti – quelle di natura – che impongono un solo obiettivo a tutti: sopravvivere.
Per questo, ogni singolo essere vivente è strutturato per sopravvivere – e perpetuare la sua specie – e di conseguenza impara ad adottare dei sistemi che siano confacenti con quello scopo. Alcuni animali sviluppano l’agilità per cacciare o sfuggire ai predatori; altri la capacità di mimetizzarsi; altri quella di andare in letargo per resistere senza mangiare ai periodi più freddi dell’anno.
Tra questi, vi sono poi delle specie animali che imparano ad adottare un sistema di sopravvivenza che risponde al principio “l’unione fa la forza”: mettono cioè insieme le proprie forze e capacità, mettendole a disposizione di tutto il gruppo e dedicandosi alla sopravvivenza del gruppo per garantire indirettamente quella dei singoli.
Che si tratti non di una creazione razionale, ma di un mero strumento offerto dalla natura per sopravvivere, è dimostrato dal fatto che l’essere umano non è assolutamente l’unico animale ad adottarlo: lupi, zebre, gnu, api e formiche, ad esempio, fanno la stessa identica cosa (e quindi Rousseau dovrebbe spiegare come sia possibile che questi animali creino le società senza essere razionali…)
Lo so bene: la nostra società è molto diversa da quella animale, ma arriverò a spiegare anche questo.
Dunque: se la nascita della società avviene allo stato di natura come sistema per garantire meglio la sopravvivenza dei singoli, essa sarà un prodotto della natura e come tale soggiacerà a regole naturali e non razionali. Presumere che qualcosa di naturale e preesistente alla ragione sia regolato dalla ragione è infatti un controsenso logico.
Uno stadio intermezzo: lo “stato sociale di natura”
Per simile ragione, la dicotomia di Rousseau “stato di natura – stato civile” è solo parziale, perché non tiene conto di questo fondamentale aspetto.
Ed è per superare questa contraddizione che, nella mia tesi di laurea, al fine di spiegare meglio il concetto ho aggiunto uno stadio intermezzo, che ho chiamato “stato sociale di natura” e di cui ora cercherò di illustrare le caratteristiche.
Abbiamo detto che gli umani, come altri animali, si aggregano creando delle società per meglio garantire la sopravvivenza dei consociati; abbiamo anche detto che questa società, essendo un prodotto naturale, si regge sulla legge di natura. Infatti, possiamo notare che i primi agglomerati umani non avevano sostanziali differenze con quelli animali: esistono gerarchie come per le colonie di formiche e i branchi di lupi, una suddivisione dei compiti (formiche operaie e formiche guerriere) e una gestione delle risorse per il fine comune (il cibo è suddiviso tra i membri del gruppo). Le dinamiche interne al gruppo, invece, sono gestite in base alla “legge del più forte”: il maschio alpha è il soggetto con le migliori qualità e resta tale fino a che un nuovo maschio non riesce, con la forza, ad imporsi su di lui.
Questo stato sociale di natura perdura secondo queste dinamiche naturali per lungo tempo, rendendo appunto la società umana identica a quella di altri animali.
La particolare evoluzione sociale umana
Ma a differenza di questi, l’umano ha sviluppato delle doti particolari che gli hanno permesso, nei millenni, di evolvere, perfezionare e complicare le strutture sociali.
La capacità cerebrale, la posizione eretta e il pollice opponibile, ad esempio, hanno consentito all’essere umano di liberare due arti dal movimento e di imparare ad afferrare e poi a costruire oggetti e strutture per rendere più efficiente la caccia, la pesca, la difesa del territorio, la protezione della famiglia.
Uno dei fattori che più di altri hanno inciso sul “soprasso” della società umana su quelle animali è stato poi il “domesticamento” e il passaggio alla vita stanziale: l’uomo ha imparato a riconoscere il funzionamento della crescita delle piante, riuscendo a riprodurlo creando la coltivazione, e ad addomesticare gli animali da usare come cibo o per lavorare i campi, creando l’allevamento. Queste due soluzioni hanno permesso all’uomo di abbandonare la vita nomade e stanziarsi su un territorio in modo definitivo, ma soprattutto gli ha consentito di accumulare riserve di cibo, garantendo la sopravvivenza del gruppo sul lungo termine e in maniera strutturata.
Questo insieme di dinamiche peculiari dell’uomo hanno così trasformato profondamente la società naturale: l’essere umano non doveva più limitarsi ad andare a caccia o raccogliere i frutti della terra quando sentiva la fame o difendersi quando veniva attaccato. Nella società evoluta questo non basta più.
Le strutture sociali si complicano e i ruoli si specializzano: esistono infatti gli agricoltori che coltivano piante commestibili per tutto il gruppo, e allo stesso modo gli allevatori di animali. Costoro hanno bisogno di sapere quanto cibo produrre, come distribuirlo e a chi affidarlo per quella distribuzione. Diventa poi necessario stabilire chi si debba occupare della costruzione di mura per la difesa, di case, di impianti di irrigazione. Inoltre, è necessario che si stabiliscano delle regole per indicare agli allevatori dove far pascolare i loro animali ed impedire loro di sconfinare nel campo dell’agricoltore vicino, che produce anch’esso cibo per l’intero gruppo.
La nascita dello stato civile
Insomma: la complicazione delle strutture sociali fa nascere una serie di obblighi e necessità sconosciute all’istinto e che come tali non possono più essere regolamentate dalle semplici leggi naturali. Diventa necessario fissare delle regole “artificiali”, che si adattino a queste esigenze specifiche e che assicurino il regolare svolgimento della vita sociale. Regole che, non essendo istintive ma razionali, devono necessariamente essere poste in essere da qualcuno e rese conoscibili all’intero corpo sociale. E non solo: è altrettanto necessario che queste regole godano di una autorità che ne garantisca il rispetto, proprio perché non sono leggi naturali e quindi non è istintivo obbedirvi.
Nascono il diritto positivo e l’autorità costituita. L’uomo è entrato ufficialmente nello “stato civile”.
Che conseguenze ha questa evoluzione sul concetto di giustizia, inteso come parametro di queste leggi “artificiali”? E’ l’argomento del prossimo articolo.
P.T.