Parte III di IX

(Premessa / Parte I / Parte II / Parte III / Parte IV / Parte V / Parte VI / Parte VII/ Parte VIII / Parte IX )

Come anticipato nello scorso articolo di questa rubrica, il giusnaturalismo e l’idea di giustizia assoluta (ma poi di fatto relativa a chi la interpreta) è stata completamente spazzata via dalla Rivoluzione Francese per lasciare spazio al positivismo giuridico che avrebbe segnato il passaggio del concetto di giustizia dalla sostanza alla forma, secondo un approccio attento unicamente alla validità del diritto più che alla sua giustizia. Vediamo meglio di cosa si tratta.

I principi del positivismo

Il principale scopo della Rivoluzione è stato quello di eliminare gli “ordini” e le classi sociali, allora divise in clero, nobiltà e popolo, e di sottrarre la disponibilità della giustizia dalle mani del sovrano e delle sue diramazioni. Con questo generale livellamento sociale, il positivismo ha ottenuto lo spostamento dell’attenzione dalla giustizia del contenuto delle leggi alla validità del diritto, garantendo due principi fondamentali:

1) l’uguaglianza, ossia l’eliminazione della distinzione in cittadini di serie A e cittadini di serie B, soprattutto con l’introduzione del principio di “generalità e astrattezza” della legge, ossia il fatto che leggi non fossero disposizioni “ad hoc” per i singoli casi, ma che trattassero quella fattispecie in modo generale e astratto, per potersi applicare a tutte le situazioni simili in modo uguale;

2) la certezza del diritto: per scongiurare i problemi di una giustizia sottoposta all’interpretazione, e dunque al capriccio, di chi aveva il potere di stabilire il diritto, la Rivoluzione operò un cambiamento rivoluzionario, appunto, consistente nell’istituzione di un’unica autorità, lo Stato, legittimata direttamente dalla volontà del popolo tutto, e soprattutto nella statuizione di una unica “forma” ben identificata di quel diritto, ossia la legge dello Stato, come tale votata da un Parlamento secondo le procedure fissate dalla stessa legge. Un diritto non più “calato dall’alto” in base a principi non meglio specificati, ma “posto” volontariamente dal sovrano (da cui “positivismo” che deriva proprio da “positum”, ossia “posto in essere”, stabilito da qualcuno).

Come conseguenza, unica fonte del diritto diventava la legge, espressione della volontà popolare attraverso procedure definite (il voto in Parlamento da parte dei rappresentanti) e il giudice non avrebbe dovuto far altro che “esternare” i principi contenuti in quella legge, formulata in modo generale ed astratto: nota è la definizione francese del giudice “bouche de loi” (bocca della legge) per esprimere il concetto che il giudice non aveva alcuna libertà nello stabilire il diritto ma solo il dovere di fare da tramite tra la legge e il caso concreto.

La giustizia come mero “rispetto delle procedure”

Come mi disse il Prof. Zagrebelsky, dal giusnaturalismo al positivismo ci fu un ribaltamento di prospettiva: se per il giusnaturalista “una legge è valida solo se è giusta”, per il positivista “una legge è giusta solo se è valida”, cioè ha seguito le procedure necessarie per definirsi tale.

Herbert Hart, uno dei principali esponenti del positivismo giuridico

In questo modo, la giustizia non era più frutto di un disegno impresso da Dio o dalla natura alle cose, ma solo ciò che la volontà sovrana stabiliva fosse tale. Un concetto bellissimo e sicuramente capace di superare gli evidenti problemi del giusnaturalismo, ma che a sua volta creava altri problemi, due in particolare.

Il primo è che il giudice bocca della legge è solo un’utopia, come tutti i giuristi e gli avvocati come me hanno imparato a capire: sulla carta sembra un principio valido, ma nei fatti lo è solo nei casi “di scuola”, che per esperienza so essere solo una sparuta minoranza del totale.

Facciamo un esempio pratico. Di fronte a un parco un cartello dice “vietato l’ingresso ai veicoli”. Messa così, sembra una legge assolutamente chiara e non sottoponibile a interpretazioni: se sono a bordo di un veicolo, non posso entrare. Semplice? No. Poniamo infatti che io arrivi davanti al parco con una bicicletta: posso entrare? In linea di massima no, perché la bici è un veicolo. Eppure non è così semplice: se infatti l’intenzione del legislatore nello scrivere quella legge fosse stata quella di evitare di sporcare o inquinare quel parco, dal momento che la bici non inquina dovrebbe essermi permesso l’accesso anche se sono a bordo di un “veicolo”, ad esempio.

Poniamo invece che quella legge sia stata scritta 30 anni fa: se arrivo al parco con un drone, posso entrare? Da un lato il drone è un veicolo, quindi dovrei dedurre che non posso; ma 30 anni fa i droni non esistevano, quindi per poter escludere anche questo nuovo veicolo il giudice dovrebbe operare quella in gergo si chiama “interpretazione estensiva”, ossia estendere l’applicazione della legge ad un caso che, al momento dell’entrata entrata in vigore della legge, non poteva essere previsto.

Come vedete, insomma, anche la più banale delle leggi potrebbe essere sottoposta ad interpretazione, e le modalità interpretative sono molteplici (interpretazione logica, storica, estensiva, analogica, ecc…) e portano necessariamente a soluzioni divergenti.

Positivismo giuridico e totalitarismi

Il secondo problema è ancora più importante per la tesi che si vuole esporre: il positivismo e la validità del diritto nella sua forma, anziché della sua sostanza, comporta che una legge è giusta solo se ha seguito le procedure previste per la sua emanazione dall’autorità legittimata dal popolo a farlo; ma cosa succede se il popolo legittima un pazzo psicopatico, che si mette a emanare leggi contrarie a tutti i principi morali concepibili?

Non è una domanda retorica, dal momento che questa situazione si è effettivamente verificata durante i totalitarismi.

Proprio i dettami del positivismo, infatti, hanno reso possibili le dittature illiberali del secolo scorso. I principi del nazismo erano contrari all’uguaglianza, alla libertà e a tutti i principi basilari della convivenza sociale. Tuttavia, erano leggi legittime, perché emanate dall’autorità legittima secondo le procedure previste. Per un positivista, quindi, le leggi sulla segregazione razziale e la privazione dei diritti di alcuni membri del corpo sociale nella Germania nazista erano leggi assolutamente giuste. Allo stesso modo, le leggi sullo schiavismo nell’America dell’800 erano leggi giuste, perché erano state emanate conformemente alle procedure ed erano frutto della concezione culturale e morale di quel periodo.

Il positivismo e la validità del diritto, ossia la riduzione della giustizia alla validità formale, è dunque capace di partorire abomini come il nazismo, addirittura giustificandoli. Era evidente che alla teoria positivista mancasse qualcosa, e quel qualcosa è stato “aggiunto” proprio con la fine della Seconda Guerra Mondiale e la nascita di una nuova corrente gius-filosofica, il “neocostituzionalismo”, che analizzeremo nel prossimo articolo.

P.T.