Parte I di IX

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Come anticipato in premessa, per poter arrivare ad elaborare la mia personale teoria sulla giustizia assoluta, sono costretto a fare tutta una serie di premesse che mi permettano di inquadrare il problema dal punto di vista storico e filosofico.

Per analizzare il tema del concetto di giustizia è utile partire dall’assunto di Blaise Pascal, che individua molto bene i termini di tutta la questione: il diritto si regge su un doppio binario, costituito da “forza” e “giustizia”. In particolare:

“La giustizia senza forza è impotente, la forza senza giustizia è tirannica; occorre dunque unire insieme forza e giustizia, e fare in modo che ciò che è giusto sia forte, e ciò che è forte sia giusto”.

Blaise Pascal
Blaise Pascal (1623 – 1662)

Ed è da questa dicotomia che parte tutto il dibattito sulla questione della giustizia, nel tentativo di darle un senso univoco e una forma identificata. Fino a che punto la forza può sovrapporsi alla giustizia? Quando è necessario che la forza si pieghi alla giustizia e quando il contrario? Ci si può legittimamente opporre alla forza, se essa è considerata ingiusta? Qual è il limite massimo di sopportabilità della forza, il punto a partire dal quale essa deve necessariamente cedere il passo alla giustizia? Ma soprattutto: questo limite esiste? Ed è sempre lo stesso o dipende da fattori contingenti?

Domande che ci costringono a considerazioni molto complesse, e che non a caso hanno infuocato un dibattito filosofico-giuridico che dura da secoli, se non millenni.

Esiste una risposta univoca? Io sono sempre stato convinto di e nella mia tesi di laurea ho cercato di dimostrare non solo che questo limite esiste, ma anche dove vada esattamente collocato.

Per spiegarvelo, però, è necessario ripercorrere almeno in parte il dibattito sulla questione, per comprendere quali siano le principali correnti di pensiero sul punto e su quali presupposti si fondino, così da potervi illustrare dove queste correnti a mio avviso sbaglino e quale sia la mia modesta posizione sull’argomento.

Per ora, vi basti considerare l’esistenza di questa dicotomia: da un lato la Giustizia, intesa come un  senso di equità comune a tutto il corpo sociale che funga da parametro per la gestione dei rapporti tra i consociati e per la ripartizione delle risorse a disposizione; dall’altro la Forza, o meglio l’autorità, ossia l’esistenza di un organo, comunque inteso (una persona, un gruppo di persone o un insieme di organi), che abbia il potere di stabilire le regole e goda del rispetto e dell’obbedienza dei consociati e che grazie ad esso sia capace di vincolare i membri del corpo sociale al rispetto di quelle regole.

Da qui la nascita del dibattito: le leggi poste dall’autorità riconosciuta sono valide per il solo fatto di provenire da quella autorità o devono anche necessariamente rispettare determinati principi di giustizia? E in questo secondo caso, quali sarebbero questi principi e chi avrebbe il potere di fissarli?

Domande che hanno ricevuto molte risposte diverse nella nostra storia ma delle quali ho pensato di analizzare solo le tre più importanti e più “recenti” (ossia dal medioevo ad oggi): il giusnaturalismo, il positivismo giuridico e il neocostituzionalismo.

Nei prossimi articoli, cercherò di illustrarvi i presupposti delle tre dottrine, per provare a rilevare i caratteri ma anche le falle di ognuna di esse, pur consapevole della necessità di affrontare la questione in modo solo superficiale e per quello che interessa ai fini della teoria che intendo esporre.

P.T.