Ho più volte ribadito che si tratta di una questione ininfluente sul problema dell’immigrazione – come spiegato qui – ma ormai la questione è all’attenzione dell’opinione pubblica. Siccome l’ordinanza di scarcerazione di Carola Rackete l’ho letta e analizzata per deformazione professionale (trovate l’ordinanza integrale in PDF a questo link), e siccome molti nei miei post di ieri sono entrati nel merito della questione, vi fornisco (gratuitamente!) la mia personale analisi dell’ordinanza di Carola Rackete.

 Il fatto e i capi d’accusa

La comandante (il Capitano è quello che sta a terra, quello che guida la nave si chiama “Comandante”…Quante cose si scoprono studiando!), è stata accusata di aver forzato il blocco della GdF che le aveva intimato di non attraccare, ossia di “resistenza a pubblico ufficiale”, e di aver commesso l’illecito di “speronamento di nave da guerra”. Reati per i quali è previsto l’arresto.

Ordinanza Carola Rackete

La comandante si difendeva dicendo di aver salvato dei naufraghi e aver agito per stato di necessità, o adempimento del dovere, perché era obbligata a portare in salvo i migranti in base al diritto del mare; siccome l’Italia si rifiutava di accoglierli, e per evitare la pena prevista a suo carico se non avesse portato in salvo i naufraghi, ha dovuto attraccare “forzatamente” . Inoltre, lo scontro con la nave della Gdf non era stato intenzionale, ma colposo, derivato da un errore nella concitazione e nel tentativo di attraccare per salvare i naufraghi.

La decisione del GIP

Nell’ordinanza di Carola Rackete il GIP di Agrigento ha ritenuto plausibile la ricostruzione della difesa, non convalidando l’arresto.

Secondo il giudice, per quanto riguarda lo speronamento di nave da guerra l’ipotesi non sussisterebbe, perché in  base ad una interpretazione della Corte Costituzionale (sent. 35/200) le navi della GdF sono da considerarsi “da guerra” solo quando si trovino fuori dalle acque territoriali.

Sulla seconda accusa di resistenza a pubblico ufficiale, per il Giudice la Comandante avrebbe agito nell’adempimento di un dovere, quello di soccorso, che a suo avviso

“non si esaurisce, si badi bene, nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione verso il più volte citato porto sicuro”

Ordinanza di convalida

Analisi della decisione

Proviamo ad analizzare la decisione alla luce della normativa vigente.

Cos’è un porto sicuro?

Il concetto di “porto sicuro”, sempre alla ribalta dell’opinione pubblica, non è in diritto così ben definito.

Si sente spesso parlare di “porto sicuro più vicino”, ma questo non è un concetto espressamente citato nella normativa. Certo: questa parla di “portare al sicuro i naufraghi il più presto possibile”, quindi è ovvio che generalmente il posto più idoneo sia quello più vicino.

Ma non è sempre così. Nel caso in specie, il porto più vicino ad esempio era la Libia, che ovviamente non è considerato sicuro. Bisognava quindi trovarne un altro idoneo a mettere in sicurezza i migranti.

Se la giocavano allora, per qualche Km, Italia, Malta e Tunisia.

La Comandante, dal momento in cui non riceveva risposte da nessuno, ha escluso la Tunisia, perché aveva avuto notizia che un’altra nave era bloccata da diversi giorni nelle acque Tunisine senza il consenso di attraccare (così dice la sua difesa). Quindi ha dovuto scegliere tra Lampedusa e La Valletta; e ha scelto Lampedusa.

Riuscire a ragionare su quale fosse davvero il porto più vicino, sicuro e idoneo tra i due (anzi tre) è estremamente complesso e diventa dunque difficile stabilire se avesse ragione lei o no. Ma in questo caso, spulciando un po’ la normativa, si possono evincere altri argomenti più interessanti e, come si dice in gergo giuridico, “assorbenti” rispetto agli altri.

Infatti, a mio avviso il GIP ha dato per presupposto un principio che, in realtà, non è così pacifico in diritto internazionale.

A mio avviso, la norma più pertinente sul punto è la Risoluzione UNHCR MSC 167-78 del 2004, che disciplina i criteri di individuazione di un P.O.S. (Place of Safety) per la messa in sicurezza definitiva dei migranti.

Tale risoluzione afferma, come ormai si sa, che gli Stati che svolgono le operazioni di soccorso siano tenuti

“a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito”

MCS 167-78, par. 2.5.

 Il punto allora è capire cosa si intenda per “luogo sicuro”. Secondo la risoluzione:

“un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse, e dove:

1. la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata;

2. le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte;

3. può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale”

MCS 167-78, par. 6.12

Una nave è un luogo sicuro?

ordinanza Carola Rackete

Questo punto è importante ai fini della decisione. Nel caso in specie, infatti,  tali operazioni sono state assicurate sulla nave (la vita dei migranti non era più minacciata, avevano cibo e cure, poteva dalla nave essere organizzato il trasporto sulla terraferma in ogni momento, anche di singoli migranti in difficoltà, come effettivamente accaduto per alcuni di loro). Ma può una nave rientrare nel concetto di “luogo sicuro” secondo la normativa?

La stessa risoluzione dice espressamente di , anche se precisa che

Sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative

MCS 167-78, par. 6.12

Quindi: il diritto internazionale non esclude categoricamente che una nave ONG possa essere considerata un luogo sicuro, qualora essa assicuri, almeno momentaneamente, cibo, cure mediche ed alloggiamento. Quel che però si richiede è che tale soluzione persista solo per il tempo necessario ad intraprendere soluzioni alternative, come individuare appunto un approdo sulla terra ferma.

L’Ordinanza di Carola Rackete è giuridicamente corretta?

Veniamo al dunque.

Dal punto di vista squisitamente giuridico, la nave ONG può essere considerata un luogo sicuro, almeno temporaneo. Secondo questa interpretazione della norma, il “dovere” della ONG era già stato adempiuto, e di conseguenza la condotta successiva non rientrava più nella scriminante, perché non aveva più senso forzare un blocco in adempimento di un dovere che era già stato adempiuto. Secondo questa interpretazione, violare blocco costituirebbe dunque un reato, per cui è previsto l’arresto.

Per altro verso, però, se la situazione sulla nave fosse stata non ulteriormente sopportabile e la temporaneità della permanenza in nave fosse da considerare “scaduta” perché divenuta insostenibile, come sostiene la difesa di Rackete, allora potrebbe reggere l’impianto logico del GIP.

Il punto, dunque, ruota tutto intorno alla definizione di “tempo necessario per intraprendere soluzioni alternative”.

Attendere una decisione politica altrui giustifica il tempo necessario? E questo tempo necessario, quanto è: tre ore, due giorni, una settimana, un mese e mezzo? La legge non lo dice, ed è qui che subentrano PM e avvocati (capito a cosa servono gli avvocati?). Nel caso specifico, come va quantificato questo “tempo necessario?”.

Questo è il fulcro giuridico della questione, non altre elucubrazioni che per il diritto non hanno alcun significato.

Due giudizi (uno giuridico e uno umano) sulla questione

Qual è la risposta corretta? Non sta a me stabilirlo. Ma a questo punto, tutto quello che posso fare è distinguere il mio giudizio professionale di avvocato da quello umano.

Dal punto di vista professionale, a mio avviso la nave poteva rientrare nella normativa citata in tema di “luogo sicuro”, nel senso che l’Italia avrebbe potuto fornire assistenza, acqua, cibo, medicine, o sbarcare singolarmente chi superava il limite di sopportazione; in tal senso poteva rendere di fatto la situazione dei migranti “sotto controllo” anche senza farli sbarcare.

Da punto di vista umano, però, questo sarebbe stato un gesto davvero meschino da parte delle autorità italiane, per quanto al limite della legalità. Perché lasciarli lì? Per questioni propagandistiche? Sono umani, santo Dio, e ormai sono lì. Falli scendere e non rompere tanto le palle. Tanto prima o poi dovranno scendere.

Ma la legge si basa sull’interpretazione delle disposizioni in vigore, non sul senso di umanità comune.

Insomma: a mio avviso l’ordinanza del giudice ha un profilo di possibile illegittimità che merita impugnazione, pur comprendendo che sia stata emanata non senza un certo “coinvolgimento emotivo” da parte del GIP. Un coinvolgimento che in cuor mio condivido (e qui parlo da essere umano), ma che dal punto di vista normativo (e qui parlo da avvocato) è un po’ forzato.

Ma se non sbaglio l’ordinanza di Carola Rackete è già stata impugnata, quindi vedremo l’opinione del giudice d’appello se rileverà queste stesse ambiguità o deciderà sulla base di altre ragioni.

Se vi interessa, analizzerò anche quella.

P.T.