La sentenza della Cassazione di due giorni fa sulla Cannabis light ha scatenato giornali, social ed opinione pubblica. Per molti, questo è il preludio alla chiusura di tutti i negozi di Cannabis light e di tutte le aziende produttrici; a quanto pare, la Cassazione ha infatti dichiarato che la vendita di prodotti derivati dalla cannabis costituisce reato.
Ma la Cassazione ha detto proprio così? E se invece avesse detto l’esatto contrario?
Come sempre accade, l’informazione tende ad esasperare realtà e situazioni così da suscitare reazioni nell’opinione pubblica. Un’opinione che, si sa, si scatena in automatico molto spesso senza avere minimamente letto il contenuto della notizia e senza neppure conoscere i termini della materia. Di solito, basta il titolo a scatenare quei bias.
Del resto, se così non fosse non ci sarebbe bisogno del fact cheking.
Questa volta l’errore cognitivo è capitato anche a me. Motivo in più per trattare la questione nel dettaglio.
Leggendo la notizia sui social (se non altro per come era appunto formulato il titolo) è stato automatico anche per me dedurre che i negozi avrebbero chiuso e che un intero mercato, che negli ultimi 2 anni è cresciuto del 400%, sarebbe stato soffocato dall’autorità pubblica. Se una cosa è reato, è reato. No? E da giurista mi sono indignato anche io, non riuscendo a comprendere in base a quale principio la Cassazione potesse aver prodotto una sentenza simile.
Poi, però, ho spento il Sistema 1, ho attivato il Sistema 2 e ho pensato due cose. La prima è che le sentenze della cassazione non sono una legge, quindi da esse non deriva nulla di automaticamente applicabile a livello legislativo; la seconda è che forse era il caso di approfondire la questione e capire cosa dicesse davvero questa sentenza.
E’ giusto ricordare che della sentenza della Cassazione sulla cannabis light non ci sono ancora le motivazioni, ma solo il dispositivo. Meglio ancora: la “massima”, come si dice in gergo. Ma come vedremo, basta analizzare quella per capire che la situazione è completamente diversa da come è stata interpretata da molti mezzi di informazione e da come è stata “usata” da alcune parti politiche per i soliti proclami elettorali.
La legge “incriminata”
Come anticipato, a stabilire cosa è legale e cosa no non può essere una sentenza, ma una legge dello Stato. Cosa dice la legge italiana, ad oggi, sul punto?
Stiamo parlando della legge n. 242/2016, che si occupa di fornire le “disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa“. Questa legge non è però abbastanza chiara sul punto perché non chiarisce espressamente se i prodotti messi in vendita da quei negozi possano o meno essere commercializzati. Non si tratta infatti della pianta in sé, ma dei suoi derivati: inflorescenze, resine, oli e foglie.
Tale legge si limita invece ad elencare le varietà di piante di canapa di cui è concessa la coltivazione per scopri agricoli-industriali; non parla di altre attività quali la commercializzazione dei derivati. Inoltre, essa stabilisce in positivo quali categorie di piante di canapa siano legali ma non dice nulla, in negativo, su quali prodotti derivati siano invece illegali e dunque non producibili.
Come i giuristi sanno, la logica generale è che il cittadino è libero di fare “tutto ciò che le leggi espressamente non gli vietano“; per questo motivo, se la vendita di infiorescenze non è espressamente esclusa, dovrebbe essere permessa.
Ed è proprio questo “vuoto normativo” che è stato sfruttato dai primi imprenditori del settore, che lo hanno fatto proprio per sollevare il problema di fronte alle istituzioni e all’opinione pubblica. Della serie: “visto che la legge non parla del problema, io lo tiro fuori sfruttando il vuoto normativo, così la legge sarà costretta ad affrontarlo“.
Questa strategia è stata infatti quella espressamente adottata proprio da Luca Marola, fondatore della “Easy Joint” e uno dei principali produttori del settore Cannabis Light. Proprio infilandosi in quel vuoto normativo, la Easy Joint è stata la prima azienda ad avere l’idea di vendere qualcosa al limite della legalità, ma senza violare espressamente alcuna legge, creando un nuovo mercato.
Perché è intervenuta la Cassazione?
Verificata l’esistenza di questo vuoto normativo, veniamo ora più specificamente al contenuto della sentenza della Cassazione sulla cannabis light.
La Cassazione non avrà potere legislativo, ma se ha fatto una sentenza in questo senso, un motivo ci sarà, no? Ovviamente sì, e il motivo è, essenzialmente, che qualcuno gli ha chiesto di pronunciarsi.
Le sentenze, infatti, fanno “stato tra le parti” e cioè si applicano alle parti in causa di quel procedimento. Non valgono generalmente e automaticamente per tutta la nazione. Possono costituire un precedente, questi sì, ma è un altro discorso.
Inoltre, in questo specifico caso la Corte ha esposto solo un principio di diritto per applicare correttamente la legge; ha fornito cioè il ragionamento giuridico corretto da usare per la risoluzione di quella controversia.
Questo per dire che se la Cassazione ha fatto una sentenza di questo tipo è perché, anni fa, si è instaurato un giudizio penale di primo grado tra l’autorità pubblica e un rivenditore; poi questa sentenza è stata appellata in secondo grado; infine è arrivata in Cassazione a seguito di ricorso alla sentenza di appello.
E alla Cassazione si chiede ora di stabilire quale legge e quale principio applicare alla fattispecie.
Il caso concreto
Il procedimento in questione riguardava infatti sequestro e conseguente condanna di uno stock di materiale da parte della polizia ai danni di un rivenditore; un sequestro impugnato dal rivenditore sul presupposto, appunto, che da nessuna parte la legge dicesse espressamente che quel prodotto non potesse essere commercializzato.
Insomma: la sentenza della Cassazione sulla cannabis light deriva da un processo che doveva stabilire se quel rivenditore potesse o meno vendere quegli stock di inflorescenze; non si trattava di stabilire in generale se la cannabis light fosse legale o meno, perché questa seconda cosa si decide in Parlamento e non in Cassazione.
Di conseguenza, come sempre accade di fronte a fattispecie dalla dubbia interpretazione, la causa è finita in Cassazione, il cui ruolo principale è proprio quello di fornire la corretta e uniforme interpretazione di una legge (la c.d. funzione “nomofilachica“).
Cosa ha detto davvero la Cassazione
Così la Cassazione, di fronte ad un caso specifico che non sembrava avere una chiara applicazione in base alla legge, si è riunita nelle Sezioni Unite per individuare il corretto principio di diritto applicabile alla fattispecie.
Ripercorriamo allora l’iter argomentativo delle Sezioni Unite per capire cosa abbia davvero detto.
Quello che la Cassazione ha notato è semplicemente che quella famosa legge 242/2016 parla della coltivazione di piante di canapa ad uso agricolo e ignora completamente le sorti dei suoi derivati, se destinati alla commercializzazione. In parole povere: non è quella la legge applicabile al caso concreto.
E allora qual è?
Non essendoci una norma specifica sul caso, i principi sull’interpretazione delle norme ci dicono di andare a cercare una legge più generale che disciplini casi simili, e usare quella per decidere. Questa legge generale, secondo le Sezioni Unite, è il Testo Unico sulla droga. E’ quindi in quella norma che va ricercato il principio di diritto applicabile.
E quale principio di diritto si ricava da quella norma? Essenzialmente che è considerato reato la vendita e la produzione di qualunque prodotto che contenga una sostanza in concreto drogante.
Ed ecco che, quindi, la Cassazione ha tirato fuori la seguente massima:
La commercializzazione di ‘cannabis sativa L’. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge n.242 del 2016 che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa […] pertanto integrano reato le condotte di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della ‘cannabis sativa L.’, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante.
Da notare l’ultima frase, ovviamente tagliata ad arte da quasi tutti i giornali che hanno riportato la notizia, stravolgendo completamente il senso della massima. La Cassazione ha detto semplicemente che costituisce reato vendere derivati della cannabis salvo che i suddetti prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante.
Chiuderanno i negozi di cannabis light?
Non è ovviamente una precisazione di poco conto; infatti, al contrario di come molti hanno sostenuto, mi pare proprio che questo principio di diritto – mi riservo comunque di leggere le motivazioni – afferma l’esatto contrario di ciò che si è cercato di far passare dai canali di informazione.
I prodotti in questione, infatti, sono caratterizzati proprio dal fatto che il contenuto di sostanza dopante – in questo caso il THC – è in una percentuale inferiore a quella necessaria a creare in concreto un effetto drogante; motivo per cui, in base a quello stesso principio di diritto, non è reato commercializzarli.
Mi sembra infatti – al netto di chi sostiene che la sentenza aumenta la confusione, non risolve il vuoto normativo o addirittura comporti la chiusura dei negozi di cannabis light – che la sentenza sia abbastanza chiara sul punto.
Ricapitolo. Non si applica la legge 242/2016, perché essa riguarda la coltivazione ad uso agricolo; si applica invece il Testo Unico sulle droghe, in base al quale la vendita di un prodotto è reato se quel prodotto contiene in concreto della sostanza drogante. La cannabis light non contiene dosi sufficienti di quella sostanza, quindi è lecito commercializzarla.
Di conseguenza, rispetto al caso concreto quello che la Cassazione suggerisce ai giudici di secondo grado è di non considerare la provenienza dei derivati – ossia la canapa in senso generale – ma analizzare quei derivati per verificare se, al loro interno, sia contenuta una dose di principio attivo superiore a quella consentita dal Testo Unico sulle droghe.
Insomma, a mio avviso non solo la sentenza non condanna affatto quei negozi alla chiusura, ma ne legittima espressamente l’attività. Certo, a patto che mantengano il THC sotto la soglia consentita dal Testo Unico.
Quando un titolo sensazionalistico diventa una “fake news”
Quella che dunque è passata per una fine annunciata del business della cannabis light, e che alcune parti politiche come la Lega hanno già visto come una legittimazione giuridica alla chiusura definitiva di quei negozi, dice in realtà l’esatto opposto.
Ancora una volta, è interessante notare come basti tagliare un pezzo di frase e scrivere un titolo più “impressionante” che subito si scateni un dibattito pubblico basato su una menzogna, una affermazione male interpretata.
Una fake news che in pochi riescono a rilevare perché esprimere la propria opinione su un argomento – buona o brutta che sia – è sempre più importante di verificare le fonti. E a volte anche solo di leggere l’articolo fino in fondo.
Insomma: la sentenza della Cassazione sulla cannabis light non dice affatto che vendere cannabis a basso contenuto di THC è reato, anzi dice proprio che non lo è.
Ve lo aspettavate?
P.T.