La Fase Diplomatica – I Parte
La gestione del post-guerra dello Yom Kippur aveva rivelato alcuni assetti importanti: in primo luogo la preminenza degli USA in Medio-Oriente quale superpotenza referente per la gestione delle crisi; in secondo luogo, lo scarso appoggio ricevuto dall’Egitto da quello che doveva essere il suo alleato in funzione anti-israeliana, ossia l’URSS, aveva fratturato i rapporti tra le due parti in maniera irreversibile.
Un distacco diplomatico che aveva lasciato l’Egitto sostanzialmente isolato nella sua lotta ad Israele, dal momento che nessun altro Paese arabo interessato al conflitto costituiva un’alternativa o un appoggio valido al Paese nord-africano e che l’ormai radicata protezione che Israele riceveva dagli USA rendeva i rapporti di forza profondamente sbilanciati in suo sfavore.
Inoltre, proprio nella seconda metà degli anni ’70 l’Egitto si sarebbe trovato ad affrontare alcune problematiche interne, come la non autosufficienza petrolifera e una forte crescita demografica, che avevano messo al centro dell’agenda politica egiziana la questione dello sviluppo; il nuovo stato di cose aveva imposto al Paese l’adozione di una linea politica che puntasse, più che allo scontro, a garantirsi il più possibile la sicurezza sui confini, dal momento che eventuali crisi militari con Israele – a maggior ragione senza l’appoggio sovietico – non sarebbero più state sostenibili.
Per questo, in quel periodo Sadat mutò il suo atteggiamento verso Israele in generale in maniera “rivoluzionaria”. Egli tese espressamente la mano al nuovo governo ultra-conservatore israeliano, capeggiato da Menachem Begin, parlando apertamente di volontà di pace e recandosi anzi direttamente a Gerusalemme per incontrare il Primo Ministro Israeliano e valutare la possibilità di individuare dei termini per un accordo duraturo.
Begin, dal canto suo, si mostrò anche più disponibile del previsto: in effetti Israele era circondato da nemici che volevano cancellarlo dalle cartine geografiche e alleggerire la tensione sui confini era sicuramente un’eventualità da cogliere al volo; a maggior ragione se a porgere loro la mano era, tra tutti i nemici, l’unico che fosse davvero in grado di insidiare lo Stato ebraico.
Così, la questione israelo-palestinese sembrò prendere improvvisamente una nuova piega. L’ipotesi di un accordo tra i due principali contendenti del conflitto sembrò un’occasione d’oro da sfruttare per pacificare l’area anche agli Stati Uniti, che costituivano ormai il vero ago della bilancia geopolitica dell’area; fu così che il nuovo Presidente americano, Jimmy Carter, si propose di fare da mediatore nella transazione, proponendo come luogo di trattativa la sua personale residenza estiva negli USA.
Stavano per avere luogo quelli che sarebbero passati alla storia come gli accordi di Camp David.
Gli accordi di Camp David del 1979 tra opportunità e criticità
La scelta dei capi di Stato dei due principali attori in contesa per la stipula non più di una tregua, ma di una pace duratura, segnò certamente una svolta nella questione israelo-palestinese; ma non vi furono solo i risvolti positivi, come vedremo.
Di positivo vi fu di sicuro la messa in sicurezza del confine a sud: in cambio della dichiarazione di pace e del conseguente riconoscimento dell’autorità di Israele da parte dell’Egitto, questo ottenne la restituzione del Sinai. Quello, però, fu l’unico risultato di rilievo per gli arabi.
Restavano infatti ancora aperte, e sostanzialmente irrisolte, altre questioni fondamentali: intanto la questione di Gerusalemme Est, che la Risoluzione 242 voleva vedere restituita ai palestinesi ma che gli ebrei non avevano alcuna intenzione di mollare, soprattutto per il valore religioso della città; allo stesso modo, la Cisgiordania continuava a restare in mano a Israele, nonostante fosse a tutti gli effetti uno di quei territori occupati di cui la Risoluzione 242 chiedeva – al netto dell’interpretazione inglese del testo – la restituzione. Soprattutto, però, restava irrisolto il problema dei rifugiati: Begin si impegnava ad intraprendere iniziative per la concessione di status di autonomia ai palestinesi dei territori occupati, ma nulla diceva a proposito dell’eventuale ritorno dei profughi nelle loro terre.
Se dunque l’accordo forniva un elemento di forte distensione tra Egitto e Israele, esso fu da subito visto come un vile tradimento dell’Egitto da parte del resto degli Stati arabi. Non solo l’Egitto, con Camp David, aveva di fatto rinunciato alla guerra contro Israele, isolando gli alleati; non solo aveva formalmente riconosciuto Israele; non solo aveva sottratto a Israele l’unico nemico all’altezza; non solo aveva abbandonato al loro destino i rifugiati palestinesi, i cui problemi non erano neanche stati sfiorati nella trattativa; soprattutto, la messa in sicurezza del confine sud avrebbe prodotto come principale risultato quello di avvantaggiare Israele sulle altre posizioni, dove poteva ora rafforzare la sua presenza proprio grazie al fatto che non si sarebbe più dovuto occupare dello spinoso confine egiziano, l’unico che potesse creargli dei seri problemi.
Le conseguenze per l’Egitto sul piano delle alleanze internazionali furono quindi disastrose: fu espulso dalla Lega Araba, accusato di collusione con il nemico giurato e l’accordo tacciato di vile tradimento all’intero popolo arabo. A farne le spese fu proprio Sadat, che il 6 ottobre 1981 fu assassinato da un estremista islamico.
Il fronte Libanese e il terrorismo dell’OLP
Alla distensione nei rapporti tra Egitto e Israele, quindi, non corrispose un cessate il fuoco sugli altri fronti, quello Libanese in particolare. Come visto, l’OLP aveva scelto proprio il Libano come base per le operazioni di guerriglia anti-israeliane, che erano diventate una vera e propria spina nel fianco per lo Stato di Israele anche grazie al supporto di Hezbollah.
Motivo per cui, all’alba del 1982, con la scusa della “caccia ai terroristi”, Israele invase il Libano. Ne seguì una guerra estremamente cruenta, che farà circa 17.000 morti tra i civili, e che costringerà Arafat – con l’aiuto degli USA – alla fuga dal Libano per rifugiarsi in Giordania.
La situazione continuava a degenerare; gli attentati terroristici si intensificarono, colpendo obiettivi anche esterni ad Israele – famosi l’attentato al porto di Larnaca a Cipro e, per noi in particolare, quello all’Achille Lauro, entrambi del 1985 – mentre l’opera diplomatica non sembrava progredire adeguatamente.
I palestinesi allora, con l’appoggio del re Hussein di Giordania, formularono una proposta di pace che prevedesse:
- la fine delle ostilità dell’OLP in cambio della restituzione dei territori occupati;
- l’accettazione delle Risoluzioni ONU precedenti;
- l’autodeterminazione per il popolo palestinese;
- la soluzione del problema dei rifugiati.
A questa proposta gli USA aggiunsero anche la necessità di riconoscere lo Stato di Israele e soprattutto l‘abbandono della violenza da parte dell’OLP come condizioni essenziali per poter essere considerata il vero referente internazionale dei palestinesi.
Le posizioni sembravano ancora troppo lontane.
Il vero problema, come detto, restava però quello dei rifugiati, che continuavano ad essere sostanzialmente ignorati da tutte le parti in causa. Proprio in quegli anni, lo stallo delle trattative diplomatiche, unito ad altre vicende che non avevano fatto altro che aumentare il risentimento dei palestinesi, provocò un degenerare della situazione che spinse diversi campi profughi alla rivolta, che passò alla storia come la prima “Intifada”.
Tuttavia, le pressioni diplomatiche della Comunità Internazionale – USA in prima linea – sembravano riuscire a sortire i loro effetti nel 1988, quando Yasser Arafat rinunciava alle azioni terroristiche e all’uso della forza e riconosceva ufficialmente la Risoluzione 242, che di fatto comportava il riconoscimento dei confini dello Stato di Israele.
Era un nuovo passo verso la soluzione diplomatica.
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