Pregiudizi e bias cognitivi
Oltre ai vari bias cognitivi (ed anzi a corollario di molti di essi) il principale problema dell’approccio cognitivo, per la sua capacità di ingannare il raziocinio e lo stesso metodo scientifico, è il pregiudizio. Esso incide in maniera irrimediabile sulle nostre percezioni e le nostre analisi della realtà; soprattutto, agisce senza che nessuno di chi ne è affetto se ne renda conto (altrimenti non sarebbe un “pre”giudizio). Ogni volta che il cervello crea uno schema, questo si radica nel suo approccio cognitivo. Di conseguenza, esso diventerà parametro di valutazione di tutto ciò che quel pregiudizio riguarda (effetto ancoraggio).
Non si tratta di una dinamica consapevole, perché è gestita dal Sistema 1 che si muove per intuito. L’utilizzo del pregiudizio indotto dallo schema creato per interpretare il fenomeno che abbiamo di fronte conduce pertanto ad una forte distorsione della realtà; infatti, l’intera analisi che condurremo su quel fenomeno sarà viziata dal punto di partenza da cui abbiamo iniziato a ragionare e ciò accadrà inevitabilmente:
- senza che possiamo accorgercene razionalmente;
- a prescindere dalla competenza o dalle conoscenze che noi abbiamo su quel fenomeno;
- riadattando ogni elemento dell’indagine alla luce di quel pregiudizio.
Trattandosi di una dinamica estremamente importante, vorrei trattarla in un articolo a parte. Come sempre faccio per rendere la spiegazione più facile e scorrevole, lo farò con un esempio pratico, tratto da un bellissimo libro (che consiglio) di Michael Shermer, intitolato “Homo Credens”.
Nella prima parte del libro, Shermer racconta di due esperimenti condotti da uno psichiatra.
Due esperimenti sul pregiudizio
Con il primo esperimento, egli aveva selezionato una decina di persone assolutamente sane di mente, aveva falsificato le loro cartelle cliniche e le aveva mandate per un periodo in una struttura psichiatrica. L’unica indicazione che aveva dato a quei soggetti era di comportarsi nel modo più naturale e spontaneo possibile.
Gli psichiatri della struttura che ne analizzarono i comportamenti riscontrarono in ognuno di loro alcune fobie, manie ossessive o altre problematiche riconducibili a deficit psichici.
Ad esempio, una di loro era una pittrice e passava le giornate a dipingere; orbene, gli psichiatri riscontrarono nei suoi quadri tutta una serie di ossessioni riconducibili a traumi familiari.
L’esperimento aveva dimostrato che quei medici, convinti dalle cartelle cliniche di un rinomato collega, avevano maturato un pregiudizio su quelle persone; di conseguenza, erano indotti a vedere loro ogni comportamento alla luce del fatto che il paziente avesse dei disturbi mentali, reinterpretando i fatti nell’inconscio tentativo del cervello di adattarli a quel pregiudizio.
La controprova
Ma questo è niente perché lo stesso psichiatra, qualche tempo dopo, tentò un secondo esperimento. Contattò un’altra struttura psichiatrica segnalando che da quel momento avrebbe inviato loro pazienti indifferentemente sia sani che malati, per verificare la loro capacità di riconoscere i “falsi positivi”. Bene, nei mesi successivi, le diagnosi di sanità mentale dei pazienti da lui inviati nella struttura aumentarono di più del doppio rispetto al normale. Quale era il problema? Che il nostro psichiatra burlone aveva mentito, e aveva sempre e solo mandato loro pazienti effettivamente malati!
Il pregiudizio aveva funzionato anche al contrario; nella convinzione che alcuni di quei pazienti fossero per forza sani (così gli aveva annunciato il collega), i medici alteravano le loro deduzioni sulla base di quel dato, finendo per sentirsi “costretti” ad individuare gente sana e in questo modo a rilasciare persone malate di mente per il solo fatto che forse lo erano “meno” delle altre.
La competenza non basta ad eludere i pregiudizi
Ma l’esperimento dimostra un’altra cosa ancor più fondamentale; il pregiudizio prescinde dalla cultura o dall’intelligenza del soggetto, è una dinamica cerebrale istintiva che può colpire e colpisce ogni essere umano, anche un medico avvezzo al metodo scientifico. Per questo nessuno deve avere la presunzione di esserne immune e per questo capita anche agli scienziati di giungere a conclusioni errate.
Peraltro, per questo stesso motivo esistono i cosiddetti esperimenti “a doppio cieco”, dove il soggetto che conduce l’esperimento non è volutamente a conoscenza di alcuni dei dati di base dello stesso, proprio per evitare che si lasci influenzare nell’analisi.
“Liberare la mente dai pregiudizi” è la prima azione che ognuno di noi deve fare quando deve approcciarsi alla realtà.
P.T.