L’articolo di oggi va ad aggiungersi agli altri approfondimenti sui bias cognitivi; analizzeremo una particolare distorsione cognitiva che influenza inevitabilmente la quotidianità di ognuno di noi: il bias retrospettivo.

Il Bias retrospettivo è anche detto “bias del senno del poi” o, in inglese, “Hindsightbias“; in cosa consiste?

Convincersi della prevedibilità degli eventi

Quante volte vi è capitato di rapportarvi ad un fenomeno accaduto e convincervi che fosse facilmente prevedibile? Quante volte, analizzando delle concause, vi siete convinti che le conseguenze erano palesi e di conseguenza non vi capacitate del perché nessuno le avesse previste?

Questa convinzione è frutto del bias retrospettivo. Questo tipo di giudizio, infatti, è una delle “scorciatoie” cognitive della nostra mente con la quale distorciamo a posteriori il ricordo di quelle che erano le nostre valutazioni iniziali di un evento, illudendoci del fatto che avremmo potuto prevederlo fin dall’inizio.

Perché accade ciò? Abbiamo già ampiamente visto che il nostro cervello ragiona per schemi e associazioni di idee; in questo modo, ogni volta che siamo in grado di associare una conseguenza ad una causa, il cervello le fonde insieme in uno schema utilmente ripetibile, per poterlo eventualmente usare di nuovo di fronte ad una situazione simile così da aiutarci a prevederla.

Bias retrospettivo e antimetodo

In sostanza, quello che facciamo è adottare un ragionamento in Antimetodo, in particolare fare uso del principio di riadattamento: infatti, il nostro cervello tenderà a leggere quelle cause alla luce della conseguenza già conosciuta, legando inscindibilmente insieme cause ed effetti come se le prime e le ultime fossero gli unici elementi a nostra disposizione per valutare quel fenomeno (WYSIATI).

Se infatti conosco già la conseguenza di una serie di eventi, leggere quegli eventi alla luce di quella conseguenza mi convincerà che quel collegamento fosse scontato, quindi facilmente prevedibile. Ciò accade, però, solo perché il giudizio che stiamo dando avviene ex post, ossia quando le conseguenze si sono già verificate, e non ex ante. Se ex post si è effettivamente verificata quella specifica conseguenza – e non altre -, è perfettamente normale che il rapporto tra cause ed effetto ci appaia palese, quindi prevedibile anche ex ante. Tuttavia, nel momento in cui quelle cause si erano verificate non era affatto detto che la conseguenza possibile fosse solo quella effettivamente verificatasi.

La conseguenza è quindi che utilizziamo il giudizio retrospettivo

per tentare di dare senso all’esperienza, ricostruendo gli eventi passati secondo categorie di significato certe e prevedibili che si àncorino alle nostre conoscenze precedenti, evitando di confrontarci con quanto di imprevedibile e incontrollabile di fatto c’è negli eventi che ci accadono.

Articolo di Cristina Rubiano

L’esempio delle diagnosi

Non c’è miglior modo di chiarire il funzionamento del bias retrospettivo che non sia un esempio pratico: prendiamo come riferimento una ipotetica notizia di un paziente morto per una determinata malattia rara non diagnosticata dai medici nonostante la segnalazione dei sintomi.

Leggendo la notizia, e mettendo a sistema le informazioni che riceviamo dalla stessa – ossia l’esistenza di quei determinati sintomi e la malattia conseguente – sarebbe per il nostro cervello ovvio il collegamento tra le due: sappiamo che quella malattia è determinata da quei sintomi, ed è quindi gioco-forza che la segnalazione di quei sintomi non potesse che far presagire quella malattia. Come ha fatto il medico a non accorgersene?

Ecco che subentra il bias retrospettivo: il ragionamento è infatti svolto alla luce del fatto che siamo consapevoli della conseguenza, perché stiamo ragionando ex post. Ma se andiamo a ragionare ex ante, dovremmo considerare che molto probabilmente il paziente avrà segnalato anche altri sintomi al medico che potrebbero aver messo in difficoltà la diagnosi; ma soprattutto, non dobbiamo dimenticare che molto probabilmente quegli stessi sintomi sono associabili a molte altre malattie, sicuramente meno rare di quella effettivamente manifestatasi. E i medici, in base al Rasoio di Ockham, hanno la tendenza ad escludere, per gradi, prima le malattie più probabili e solo dopo quelle meno probabili. Ragionando ex ante, dunque, il legame tra sintomi e malattia rara non è affatto scontato. Noi lo riteniamo tale solo perché, col senno del poi e quindi conoscendo già quale fosse la malattia, ci sembra che la stessa fosse facilmente prevedibile anche prima.

Bias retrospettivo e complottismo: l’esempio di Pearl Harbor

Il bias retrospettivo gioca un ruolo spesso determinante nelle teorie del complotto; sovente, infatti, le teorie cospirazionistiche si fondano su un risultato che, alla luce degli elementi a disposizione, non poteva che essere facilmente prevedibile e nonostante questo, chi sarebbe stato incaricato di intervenire non l’avrebbe fatto. Segno che fosse tutto pre-programmato.

Basti pensare all’attentato dell’11 settembre, per il quale secondo i complottisti, alla luce di tutte le prove a disposizione – il brevetto di volo dei dirottatori, le segnalazioni alle torri di controllo, la minaccia di Bin Laden di voler colpire l’america, ecc.. – non pare possibile che gli americani non sapessero già dell’attentato, avendo in mano tutti gli elementi per dedurlo.

Ma l’esempio secondo me più eclatante è quello di Pearl Harbor.

bias retrospettivo

Secondo le fonti complottiste, infatti, nei giorni precedenti l’attacco vi erano state addirittura ben 8 segnalazioni, frutto di intercettazioni radio dei comandi giapponesi, sull’imminente attacco alla base delle Hawaii. Da questo, i complottisti ne deducono che l’attacco fosse facilmente prevedibile e il fatto che non sia stato contrastato una prova della premeditazione, finalizzata a precostituirsi una scusa per intervenire nello scontro bellico.

In realtà, però, la narrativa ignora il fatto che, in quegli stessi giorni, le intercettazioni radio dei comandi giapponesi avevano intercettato ben 58 messaggi che riguardavano movimenti delle navi giapponesi nelle Filippine, 21 su attacchi a Panama, 7 su attacchi all’India e all’Asia sud-orientale e perfino altri 7 su un possibile attacco alla West Coast americana.

Le intercettazioni in quei giorni erano dunque così tante e confusionarie che

l’intelligence militare smise di inviare memorandum alla Casa Bianca, temendo che ci fosse una falla nel sistema di sicurezza e che i giapponesi cominciassero a sospettare che gli americani avessero decriptato i loro codici e che stessero leggendo le loro comunicazioni”.

ZIMMERMANN, 2002, p. 127, cit. in SHERMER, Homo Credens, p. 312

Insomma: valutata ex ante, la situazione appare molto meno prevedibile di quanto appaia ex post, una volta che l’attacco si è già verificato. Se infatti alla luce dell’attacco le segnalazioni sembrano essere palesemente collegate ad esso, ragionando ex ante saremmo costretti ad ammettere che anche un attacco alle Filippine, a Panama, all’India, all’Asia sud-orientale o addirittura alle stesse coste americane sarebbe stato ugualmente prevedibile.

Ma se le stesse cause sanno prevedere decine di eventi, significa che non ne stanno prevedendo nessuno.

Non si tratta dunque di banali errori che si potevano evitare o peggio ancora di situazioni volontariamente provocate; si tratta solo di ragionare col senno di poi, facendo ricorso al bias retrospettivo.

P.T.