Avevo già avuto modo di analizzare la decisione della Cassazione sulla cannabis light in questo articolo, dove trovate tutti i riferimenti e le spiegazioni del caso; ora che sono uscite le motivazioni, abbiamo la possibilità di approfondire meglio la questione.

Effetto drogante “in concreto”

Riassumendo molto brevemente, in sostanza la Cassazione ha fatto riferimento alla normativa sugli stupefacenti, rilevando che la legalità della vendita di una sostanza va valutata in base alla sua concreta capacità drogante.

In tal senso, come avevo già preventivato, una simile decisione non escludeva categoricamente la legalità della cannabis light, proprio perché l’effetto drogante andava valutato “in concreto” e non desunto semplicemente dal fatto che si trattasse di un derivato della canapa.

Le motivazioni, però, mi hanno in parte contraddetto. O meglio: il ragionamento logico-giuridico è sempre quello, ma la Cassazione ha deciso di darne un’interpretazione più restrittiva.

Cosa intende la Cassazione per “in concreto”?

Infatti, il mio ragionamento si basava su questo presupposto: se l’effetto drogante va valutato in concreto e non desunto dal fatto che si tratta di un derivato di una sostanza drogante, la stessa normativa sugli stupefacenti e gli studi correlati sostengono che il principio attivo della cannabis, il THC, non ha effetto drogante se inferiore allo 0.6%.

Proprio sulla base di questo limite, e del generale “vuoto normativo” in tal senso, i produttori di cannabis light ne avevano approfittato per creare questo nuovo mercato, vendendo un prodotto che conteneva un principio attivo in quantità non drogante per la legge, quindi di fatto legale anche se non ne era espressamente permessa la vendita.

Stando così le cose, avevo dunque dedotto che la sentenza in questione non dichiarasse affatto illegale la cannabis light, ma anzi di fatto ne riconoscesse la validità proprio perché entro i parametri di legge.

L’interpretazione restrittiva della Cassazione

Ma la Cassazione si è spinta più in là. A quanto pare, a parere dei giudici di legittimità il semplice fatto che il prodotto contenga il principio attivo “sotto la soglia” del 0.6%, individuata come limite di “drogabilità” (perdonate il neologismo), non è sufficiente a garantire che, in concreto, quella sostanza non sia drogante.

Per la Cassazione, infatti, a prescindere dai limiti di legge l’effetto drogante va valutato davvero “in concreto”, ossia caso per caso. Non possiamo cioè escludere che anche un’inflorescenza con solo lo 0.6% di THC possa in concreto avere comunque effetti droganti; quindi, per la Cassazione va valutato ogni caso specifico.

Le assurde conseguenze di questa sentenza

Le motivazioni della sentenza sulla cannabis light, che dal punto di vista giuridico appaiono in effetti coerenti con i principi di legge e con la giurisprudenza, producono però in concreto – per restare in tema – degli effetti sclerotici.

Dover verificare in concreto ogni singolo caso significa infatti che la polizia ha la facoltà e il dovere di sequestrare quantitativi di cannabis light – sia ai venditori che ai consumatori – per verificarne l’effetto drogante in concreto. E’ chiaro che questa circostanza diventi un fortissimo deterrente alla vendita, perché ovviamente nessun imprenditore si assumerebbe il rischio di vendere un prodotto che, ogni tre per due, potrebbe essere sequestrato per le verifiche del caso.

Ma non è solo questo. E’ molto bello dire che l’efficacia drogante va valutata in concreto: ma nei fatti cosa significa? Come facciamo a stabilire se una sostanza in concreto è dopante, se il quantitativo indicato non è un parametro sufficiente?

Le verifiche “a campione” sono insufficienti

Questo a mio avviso costituisce un bel problema. Infatti, di solito le autorità procedono in questo modo: sequestrano dei campioni del prodotto e lo analizzano, per verificare quantitativo effettivo di principio attivo e altri parametri. Ma se la capacità drogrante va valutata “caso per caso”, l’analisi di una singola partita di cannabis light, che in ipotesi si rivelasse “regolare”, non escluderebbe che le altre partite della stessa fornitura, pur avendo stesso quantitativo e stesso contenuto, non siano invece “droganti”. Quindi, le autorità dovrebbero sequestrare tutte le singole bustine e analizzarle una per una.

Un’incombenza estremamente costosa, lunga e complicata.

Se in concreto è drogante per me, lo è anche per te?

Ma c’è un aspetto ancora più assurdo. Se devo valutare l’efficacia drogante in concreto, nei termini indicati dalla Cassazione, è ovvio che questa verifica dipenda anche dal soggetto che effettivamente assume quella sostanza.

Ad esempio: una birra media, in concreto, è sufficiente a farci ubriacare? Dipende. Se uno non ha mai bevuto un goccio d’alcol in vita sua, dopo una birra media si sentirà certamente ebbro. Ma se uno è abituato a bere tre birre al giorno, una media sarebbe certamente insufficiente a farlo ubriacare.

La stessa cosa vale per la cannabis. Come faccio a stabilire in concreto se quella sostanza è davvero drogante per chi la consuma? Dovrei fermare chi la compra, fargli fumare una canna davanti a me e poi verificare se è “sballato” o no? Dovrei fermare tutti, e fare questo test a tutti, perché il fatto che tu sia sballato dopo uno spinello non comporta che anche io lo sia. Del resto, la Cassazione parla di verifica “caso per caso“.

Vi sembra una cosa possibile, ragionevole, sensata? A me no.

Una sentenza che non risolve niente

Il risultato di questa sentenza, dunque, è creare più incertezze e problemi di quanti non ce ne fossero prima. Di fatto, la vendita e il consumo di cannabis light non sono automaticamente considerati illegali, ma le verifiche per stabilire, nei singoli casi, se quella sostanza è drogante o meno, si rivelano impossibili, costose, complicate e obiettivamente impraticabili.

Dal momento che si tratta di una “zona grigia” che la legislazione non ha ancora normato in modo completo, meglio sarebbe stato che la Cassazione trovasse uno “stratagemma” per indurre il Governo e il Parlamento a fare una legge specifica sul punto, che chiarisse espressamente se la cannabis light è legale o no. Invece, riducendo il problema ad una verifica caso per caso, nel tentativo di non prendere una posizione netta ma di lasciare aperta la possibilità della vendita senza arrecare danno alla salute delle persone, la Cassazione ha preso una decisione che crea molti più problemi di quelli che voleva risolvere.

Le motivazioni della Cassazione sulla cannabis light creano uno scenario sclerotico, di fatto inapplicabile e incapace di fare chiarezza su questo tema così aleatorio.

Come ammazzare un mercato

Soprattutto, le motivazioni della Cassazione sulla cannabis light creano ancora più incertezza e paura negli imprenditori che hanno investito in questo mercato, che si trovano ora esposti al rischio di continui sequestri di tutta la merce per verifiche che non si capisce neanche tanto bene come vadano condotte, visto che si parla di verifica “caso per caso”. Cosa dovrebbe fare la polizia: far fumare ogni singola bustina a qualcuno e vedere che effetto fa?

Personalmente, quello che trovo assurdo è che i giudici abbiano deliberatamente deciso, in barba alle evidenze scientifiche, di ostacolare un mercato nuovo, che poteva essere un’opportunità soprattutto per i giovani, che potesse garantire un futuro a ragazzi, a famiglie, agli italiani in generale.

A volte sembra proprio che le autorità lo facciano apposta ad ostacolare la crescita del Paese.

P.T.