Nel pieno della campagna elettorale, continuano ad emergere proposte di legge su ogni ambito; tra queste, c’è la proposta di Berlusconi che riguarda l‘inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Cerchiamo allora di chiarire meglio, con la dovuta semplicità, la principale questione che sta ruotando intorno al dibattito sull’argomento: l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione è incostituzionale?

Inappellabilità delle sentenze di assoluzione: la Legge Pecorella

In realtà il tema non è nuovo alla giurisprudenza: questa stessa ipotesi di inappellabilità delle sentenze di primo grado è già stata oggetto sia di una legge che di una pronuncia della Corte Costituzionale.

Parliamo della c.d. “Legge Pecorella” del 2006, che stabiliva appunto che le sentenze di primo grado che proscioglievano l’imputato non potevano essere appellate dal Pubblico Ministero, salvo i soli casi in cui, in seguito alla sentenza, emergessero nuove prove decisive in grado di ribaltare potenzialmente la decisione.

La ratio di questa norma era quella di venire incontro all’esigenza di ragionevole durata del processo, sancita dall’art. 111 Cost., in quanto soprattutto i giudizi di appello in diritto penale sono i più critici, durano di più e una incondizionata possibilità di procedere con gli appelli contribuiva enormemente ad appesantire il carico di lavoro dei Tribunali e quindi a rallentare le procedure.

La legge, però, appena l’anno successivo fu portata davanti alla Corte Costituzionale, che la dichiarerà illegittima.

Le motivazioni della Corte Costituzionale

Molto brevemente, le criticità dell’illegittimità costituzionale dell’inappellabilità delle sentenze di assoluzione sono sostanzialmente 3:

  • l’art. 3 Cost., ossia il principio di uguaglianza;
  • l’art. 111 Cost., che, oltre alla ragionevole durata, impone anche una condizione di parità tra le parti di un processo;
  • l’art. 112 Cost., che impone l’obbligatorietà dell’azione penale.

La Corte Costituzionale, nella sua sentenza (n. 26/2007, la trovate qui) ha però fatto leva essenzialmente sul secondo dei tre articoli, spiegando che una simile legge rendeva squilibrati i rapporti tra le due “parti” del processo in contrasto quindi con l’art. 111 Cost. Un principio che non può essere del tutto subordinato all’altro principio di quell’articolo, ossia l’esigenza di ragionevole durata. Insomma: i due principi vanno bilanciati tra loro, non può uno prevalere del tutto sull’altro.

La stessa Corte però, nella sentenza ha avuto modo di precisare alcuni criteri afferenti l’uguaglianza delle parti nel processo, che forse è utile rivedere nell’ottica di una possibile riproposizione dell’inappellabilità delle sentenze di assoluzione.

Si legge infatti nella sentenza che:

“per quanto attiene alla disciplina delle impugnazioni, parità delle parti non significa, nel processo penale, necessaria omologazione di poteri e facoltà”

Corte Cost., Sentenza 26/2007

Infatti,

“questa Corte ha in particolare rilevato come il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado da parte del pubblico ministero presenti margini di “cedevolezza” più ampi, a fronte di esigenze contrapposte, rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell’imputato. Il potere di impugnazione della parte pubblica trova, infatti, copertura costituzionale unicamente entro i limiti di operatività del principio di parità delle parti – “flessibile” in rapporto alle rationes dianzi evidenziate – non potendo essere configurato come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, di cui all’art. 112 Cost.; mentre il potere di impugnazione dell’imputato viene a correlarsi anche al fondamentale valore espresso dal diritto di difesa (art. 24 Cost.), che ne accresce la forza di resistenza di fronte a sollecitazioni di segno inverso (sentenza n. 98 del 1994).

Corte Cost., Sentenza 26/2007

Insomma: la parità di cui all’art. 111 Cost. non deve intendersi in senso assoluto, conferendo cioè alle parti gli stessi identici poteri. Quello che conta è che il sistema e le procedure nel loro complesso garantiscano un giusto equilibrio tra le facoltà e i poteri delle parti nell’ottica degli altri principi costituzionali (diritto di difesa, interesse pubblico, obbligatorietà dell’azione penale, ecc…).

Sottolinea infatti la Corte che

“Ciò non toglie, tuttavia, che le eventuali menomazioni del potere di impugnazione della pubblica accusa, nel confronto con lo speculare potere dell’imputato, debbano comunque rappresentare – ai fini del rispetto del principio di parità – soluzioni normative sorrette da una ragionevole giustificazione, nei termini di adeguatezza e proporzionalità dianzi lumeggiati: non potendosi ritenere, anche su questo versante – se non a prezzo di svuotare di significato l’enunciazione di detto principio con riferimento al processo penale – che l’evidenziata maggiore “flessibilità” della disciplina del potere di impugnazione del pubblico ministero legittimi qualsiasi squilibrio di posizioni, sottraendo di fatto, in radice, le soluzioni normative in subiecta materia allo scrutinio di costituzionalità”.

Corte Cost., Sentenza 26/2007

E in effetti, la Corte aveva in altre occasioni acconsentito alla limitazione di alcuni poteri del Pubblico Ministero, come ad esempio la non appellabilità delle sentenze di primo grado salvo che nei casi in cui venga modificato il titolo del reato (sul punto la sentenza 34/2020) o il divieto – ancora vigente – per il P.M. di impugnare le sentenze di condanna del giudizio abbreviato, sul presupposto, in questo secondo caso, che

“la soppressione del potere della parte pubblica di impugnare nel merito decisioni che segnavano «comunque la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere nel processo attraverso l’azione intrapresa» – essendo lo scarto tra la richiesta dell’accusa e la sentenza sottratta all’appello non di ordine «qualitativo», ma meramente «quantitativo» – risultasse razionalmente giustificabile alla luce dell’«obiettivo primario di una rapida e completa definizione dei processi svoltisi in primo grado secondo il rito alternativo di cui si tratta (sentenza 363/1991)”.

Corte Cost., Sentenza 26/2007

Se quindi in generale il Legislatore può limitare alcuni poteri alle parti, pur mantenendo un ragionevole equilibrio tra le due posizioni, la legge Pecorella, che sanciva in toto l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, risultava del tutto squilibrata in termini costituzionali. Sostiene infatti la Corte che

“la norma censurata racchiude una dissimmetria radicale. A differenza dell’imputato, infatti, il pubblico ministero viene privato del potere di proporre doglianze di merito avverso la sentenza che lo veda totalmente soccombente, negando per integrum la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere con l’azione intrapresa, in rapporto a qualsiasi categoria di reati”.

Corte Cost., Sentenza 26/2007

D conseguenza, la norma censurata appare generalizzata e unilaterale.

  • Generalizzata perché “non è riferita a talune categorie di reati, ma è estesa indistintamente a tutti i processi: di modo che la riforma, mentre lascia intatto il potere di appello dell’imputato, in caso di soccombenza, anche quando si tratti di illeciti bagatellari, fa invece cadere quello della pubblica accusa anche quando si discuta dei delitti più severamente puniti e di maggiore allarme sociale, che coinvolgono valori di primario rilievo costituzionale“;
  • Unilaterale perché ” non trova alcuna specifica “contropartita” in particolari modalità di svolgimento del processo, essendo sancita in rapporto al giudizio ordinario, nel quale l’accertamento è compiuto nel contraddittorio delle parti, secondo le generali cadenze prefigurate dal codice di rito“.

Inappellabilità delle sentenze di assoluzione e incostituzionalità: conclusioni

Insomma: noi non abbiamo ad oggi contezza di quale sarebbe la formulazione che il Centro Destra intende dare alla nuova eventuale legge in questione. Ma in generale, possiamo dire che una legge che revochi in toto la possibilità del P.M. di appellare le sentenze di assoluzione di primo grado, senza distinzione sul tipo di reato e senza prevedere altri correttivi, sarebbe per certo dichiarata incostituzionale.

Per poter superare il vaglio di costituzionalità la legge dovrà dunque tenere conto del generale equilibrio tra le parti e magari, anziché un intervento indiscriminato, optare per limitare l’inappellabilità solo ad alcuni tipi di reato e solo a determinate condizioni, cercando quindi di garantire l’equilibrio tra le parti del processo in ossequio all’art. 111 Cost. e agli altri valori costituzionali.

P.T.

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